Ogni tanto qualcuno si sveglia e scopre l’acqua calda: in questo caso sono le due università britanniche di Nottingham e Bradford che hanno usato il riconoscimento facciale per mettere a confronto il sicuro originale di Raffaello della Madonna Sistina (dalle ragguardevoli dimensioni di 196 x265 cm di altezza) con il cosiddetto Tondo de Brécy, un dettaglio dell’opera maggiore appartenente a un privato inglese e sempre considerato una copia, probabilmente di epoca vittoriana.

Bene, il riconoscimento facciale ha stabilito che i visi delle due madonne si somigliano al 97% quindi gli eminenti universitari avrebbero stabilito che il tondo è davvero di Raffaello. Almeno così titola la BBC e così è stata ripresa dalle testate di tutto il mondo, tanto che addirittura si comincia a dire che gli storici dell’arte e i restauratori – i loro annosi studi, le indagini tecniche, il costo delle analisi formali e stilistiche – probabilmente saranno superati dall’economico programmatore.

Scrivo per chi non conosce le pratiche alchemiche degli specialisti.

Della Madonna Sistina (1513-14) si conosce ogni dettaglio della storia e la potete trovare ovunque sul web: dipinta certamente da Raffaello è diventata fin da subito un modello per tantissimi altri artisti, diremmo quasi un archetipo di quella che deve essere la materna dolcezza di Maria Vergine, soprattutto nella pittura classicista della Contro Riforma. Il nome “Sistina” viene dal convento di San Sisto di Piacenza per il quale fu dipinta – ne parla anche Vasari -, ma nel XVIII secolo i Domenicani furono costretti a venderla per bisogno di soldi e così arrivò alla Gemäldegalerie di Dresda, dove occupa un meritatissimo posto d’onore dal 1754. Tra l’altro, il suo arrivo fece molto discutere perché era la prima volta che un’opera d’arte nata per devozione entrava in un museo chiaramente profano, perdendo la sua funzione primaria. Tutti la conoscono: non di rado nelle camere delle nostre nonne ce n’era almeno una copia fotografica a capo letto, magari incollata su una tavola dorata. Oggi è diffusissima nel merchandising: potete trovare gli angioletti del dipinto riprodotti su ogni tipo di oggetto venduto ovunque anche in Italia, tanto che non di rado i turisti sono convinti di poterla vedere in uno dei nostri musei. Insomma, una vera pop-star.

Ma il punto è proprio lì: una copia ben fatta, perfettamente somigliante, sia essa fotografica o a pennello, non è in nessun caso un originale. L’originale contiene l’idea stessa dell’artista, la sua personale biografia e formazione oltre che la sua mano: a volte, su richiesta dei collezionisti, gli artisti stessi hanno replicato le proprie opere – è il caso, ad esempio, della Buona Ventura di Caravaggio nelle sue repliche dei Musei Capitolini e del Louvre – ma non sono quasi mai identiche nonostante usassero lo stesso cartone, anzi la discussione può essere su quale delle repliche autografe sia stata la prima opera. Una sorta di diritto di primogenitura, molto importante sia per conoscere il percorso del maestro, sia per il museo proprietario: non a caso i nostri cugini francesi sono parecchio scornati, perché pare proprio che l’originale stia a Roma e al Louvre abbiano “solo” una replica. 

Alla replica autografa è giustamente riconosciuta dignità di originale, dato che appartiene alla vicenda biografica del medesimo artista e, nelle arti replicabili per loro natura – come la stampa da incisione e quella fotografica – sono gli artisti stessi a fare in modo di documentarne il numero, la tiratura, l’autenticità etc.

Copiare è ampiamente lecito: sono millenni che gli artisti copiano opere di altri artisti, sia come omaggio, sia come momento di apprendimento tecnico e formale. Però non hanno pretesa di originalità, non si svegliano una mattina gridando ai giornali ‘Ho trovato un Raffaello nella soffitta della prozia Eulalia!’.

Esiste un mercato delle copie, del tutto legale, e non di rado sono copie d’artista, oggetto di studi e di mostre, perché validissime e legate magari al percorso formativo del maestro, alla sua ispirazione e anche al suo semplice divertimento.

Poi ci sono i falsi: in questo caso il pittore falsario, che ha chiare intenzioni fraudolente, si specializza nell’imitare perfettamente l’autore, anche creando interi dipinti ex novo che, per soggetto, struttura e stile, potrebbero essere stati ideati dal maestro.

Con l’avanzare delle tecnologie di indagine anche i falsari sono migliorati: usano legno e tele dell’epoca in cui lavorava il maestro – magari smontando altre opere, oppure pezzi di mobili e parati antichi – si fabbricano da soli i colori secondo quello che si sa del maestro stesso, con le stesse materie prime e prodotti chimici. Si specializzano nel disegno e nella pennellata. Un lavoraccio, che richiede anni e che costa molto, mirato direttamente al mercato del collezionismo: il falsario non lavora da solo, ha i suoi fornitori e committenti, ha magari degli storici dell’arte che costruiscono per i suoi falsi una vera e propria storia – eh sì, anche gli storici dell’arte possono essere venali! – insomma una filiera fraudolenta che ogni tanto si spezza quando qualcuno indaga attentamente oppure se il falsario viene allo scoperto da solo, magari perché non è stato pagato adeguatamente.

Non sto dicendo che il Tondo de Brécy sia un falso o una copia, sto semplicemente dicendo che un essere artificiale, per quanto intelligente, difficilmente potrà sostituire il lavoro dei tecnici e della loro sensibilità. Perché l’arte non è solo forma, anzi la forma è l’emanazione di una sostanza.

Peraltro, gli specialisti si avvalgono continuamente delle innovazioni tecnologiche: le radiografie, la riflettografia, la tac, le sonde da microchirurgia, ogni strumento di indagine o diagnostico è benvenuto tra gli storici dell’arte e i restauratori, che anzi devono studiare costantemente per essere aggiornati.

Ma no, non basta dire che un’opera è identica a un’altra al 97% per stabilire che è autografa di un maestro e che vale milioni di dollari. Il 97% di somiglianza ci dice solo che chi ha copiato era bravo a farlo e, magari, potrebbe aver usato una camera obscura – esistono dal XVII secolo – per proiettare l’immagine dell’originale sulla tela.  Ci piacerebbe che fosse Raffaello, ma siamo come San Tommaso e vogliamo toccare con le nostre mani non artificiali.

Ora, che il mondo riconosca ben poca utilità a noi barbogi dello studio, è cosa nota. È assodato che il massimo del nostro valore coincida con il valore economico che possiamo attribuire a eventuali opere in commercio: a cosa altro potrebbe servire tanta fatica, se non a far guadagnare qualcuno e staccare biglietti? Quante volte, guardando qualcosa che avete appeso al muro in casa vostra, vi siete chiesti quanto vale? Se però vi rivolgete a uno storico dell’arte o a un restauratore per una perizia, vi disturba il fatto che il lavoro vada pagato anche per scoprire che potreste forse ricavare cento euro vendendo sul web. Personalmente, nella maggior parte dei casi rifiuto le perizie proprio per questo. Troppo studio, troppo lavoro, ripagato da delusioni per tutte le parti in causa: ogni tanto davvero un capolavoro viene trovato in un retrobottega, ma è più raro che trovare il tesoro del pirata Barbanera.

Comunque, il meccanismo è proprio questo: su nomi importanti – come Raffaello – la perizia può far salire il valore di un’opera in mano a un privato. Se a farla sono due eminenti università con un’intelligenza artificiale, quale essere umano potrebbe confutarla?

Vogliamo scommettere che presto uscirà una bella monografia sul Tondo de Brécy e che, magari, ci faranno una mostra di grido? L’opera, vera o falsa, diventerà una nuova pop-star, arricchendo cospicuamente il suo proprietario e tutta la filiera che sta dietro questa perizia.

[Immagini Wikipedia]