(di Penelope Filacchione)
È di questi giorni la notizia che il governo inglese sta ragionando della restituzione alla Grecia dei cosiddetti Marmi Elgin, vale a dire le statue del Partenone che si trovano al British Museum. I commenti sotto i post dei giornali sono esilaranti per i luoghi comuni e per il nazionalismo da settimana enigmistica che trova sfogo così, con riferimenti alla Gioconda di Leonardo, ma anche ai tesori macedoni ora in Grecia stessa a Salonicco.
Facciamo un po’ di chiarezza.
Tutti e tre i Paesi (Italia, Grecia e Macedonia) hanno subito nel tempo delle dominazioni che ne hanno stravolto i confini e cambiato la storia, ma riguardo ai tesori d’arte le tre situazioni messe a confronto sono ben diverse.
La Grecia fu sottomessa all’impero Ottomano (turco – musulmano) dal 1453, con la conquista di Costantinopoli capitale dell’Impero Bizantino. Nacque allora la Grecia Ottomana: l’imposizione linguistica e culturale non scalfì mai del tutto l’identità cristiana e indipendente dei greci. La resistenza insorse nella Guerra d’Indipendenza Greca dal 1821 al 1830: la vittoria fu ottenuta con l’appoggio francese, inglese e russo offerto per l’interesse comune nello smembramento di quel grande impero islamico che durava dal XIII secolo (vi ricorda qualcosa?). Tra parentesi a Missolungi, teatro di una battaglia cruciale della guerra nel 1822, lasciò la vita anche Lord Byron nel 1824: aveva romanticamente aderito alla guerra d’indipendenza e si era auto arruolato, ma si ammalò e morì.
Intanto Lord Elgin aveva ottenuto nel 1811 dalla Sublime Porta – il governo ottomano – il permesso per portare in Inghilterra i marmi del Partenone: ne nacque anche in Gran Bretagna una violenta disputa, in cui i liberali più vicini allo spirito dell’auto determinazione greca accomunavano questa azione al saccheggio. Per mettere al riparo la coscienza nel 1816 il parlamento inglese raccolse la somma necessaria per pagare all’impero ottomano i marmi trafugati, così che da allora risultano acquistati dal governo britannico. Attualmente una parte dell’opinione pubblica inglese sostiene che non potevano sapere che stavano acquistando da persone sbagliate, ma è chiaramente fittizio, dato che cinque anni dopo sarebbe iniziata ufficialmente la guerra di indipendenza e che la stavano fomentando proprio gli inglesi. Diremmo piuttosto che i britannici si sono affrettati a saldare l’acquisto prima del cambio politico, sapendo che i greci non gli avrebbero venduto dall’acropoli neanche i rovi dei cespugli. Ciò che i greci da sempre – a mio parere giustamente – contestano, è che gli ottomani erano occupanti e non avevano diritto di vendere ciò che non gli apparteneva né storicamente né culturalmente. È come se un ricettatore vendesse qualcosa rubato a casa nostra e la vendita fosse considerata legittima da un magistrato. Da quando la Grecia è una repubblica moderna chiede la restituzione delle statue e metope: oltre la presunta legittimità dell’acquisto, l’Inghilterra ha opposto la presunta incapacità dei greci di custodire ed esporre decorosamente le opere d’arte.
Quando un’opera d’arte è patrimonio dell’umanità non dobbiamo preoccuparci di strapparla al suo paese perché non la sa custodire, dovremmo semmai preoccuparci di aiutare anche economicamente quel paese a custodirla al meglio, visto che lo sta facendo anche per noi.
Peraltro, i greci hanno dimostrato di essere capaci di ridursi alla canna del gas, ma di saper valorizzare e perfino venerare le loro antichità quanto e più di noi, come sa chiunque abbia fatto una vacanza in Grecia. Poco conta l’ipotesi di chi sostiene che gli inglesi hanno impedito che il Partenone diventasse calce: in realtà i danni più gravi non furono inflitti né dai cristiani – che lo trasformarono in chiesa – né dai musulmani – che ne fecero una bellissima moschea – senza mai alterare nessuna delle statue e delle metope. Il danno fu fatto da un cannoneggiamento veneziano del 1687 per il controllo del porto: il deposito di polvere da sparo che i turchi avevano messo per emergenza d’assedio nella cella posteriore del tempio, sull’acropoli che pensavano imprendibile, ne ha fatto un gigantesco fuoco d’artificio.
I britannici rivendicano anche che i marmi sono alla base stessa della nascita del British Museum, ragion per cui costituirebbero un caposaldo della cultura britannica, ma l’opinione degli studiosi è tutta dalla parte dei greci e la regina stessa si è pronunciata per la restituzione qualche anno fa. Intanto il parlamento – che dovrebbe legiferare e la cui azione non può e non deve essere condizionata dal monarca – rimanda la decisione alla direzione del museo, mentre la direzione la rimanda al parlamento e così allungano i tempi.
Veniamo ora agli elementi di confronto.
Filippo il Macedone era decisamente un non greco, come era non greco suo figlio Alessandro e perfino Aristotele, che gli ateniesi consideravano metèco, cioè uno straniero libero e tollerato. Fino al 323 a.C. il filosofo fu protetto dalla sua autorevolezza e dal fatto che era stato il maestro di Alessandro, ma alla morte di lui fu costretto a lasciare Atene e morì in circostanze oscure per disturbi allo stomaco o all’intestino l’anno seguente.
La Macedonia attuale sostiene che la Grecia dovrebbe restituire il tesoro della tomba di Filippo ritrovata a Verghina ed esposta a Salonicco nel museo: in realtà Verghina e Salonicco, per quanto facenti parte della regione macedone (non dello stato) sono attualmente in Grecia, anche se per atto di conquista da parte del re greco nel 1912, durante la prima guerra balcanica. Per inciso, nella città macedone di Salonicco nacque Ataturk, il padre della Turchia moderna. Lo scavo e il ritrovamento della tomba di Vergina avvennero durante una missione archeologica del 1977 e il materiale non è mai stato spostato dalla regione d’appartenenza. Era e si trova in Macedonia, benché nella regione greca moderna, a pochissimi chilometri da dove è stato rinvenuto. In questo caso la questione non riguarda dunque gli oggetti archeologici, ma la rivendicazione da parte dello Stato di Macedonia di un territorio di confine in un antagonismo secolare e mai sopito. Per questo la storia di questo tesoro non può essere accomunata a quella del Partenone. D’altra parte, i greci moderni che sostengono che Alessandro, Filippo, la madre Olimpiade parlavano greco adducono una ragione futile, dato che tutti parlavano greco all’epoca come lingua internazionale e che sicuramente la scelta nel IV secolo a.C. era tra essere nell’orbita greca o in quella persiana. Piuttosto, Olimpiade era in realtà figlia del re dell’Epiro, diviso dopo la Prima Guerra Mondiale tra una regione greca dell’Epiro e una albanese: ecco perché anche gli albanesi rivendicano la paternità di Alessandro Magno nella narrazione epica delle loro origini. Una questione intricata che, ancora una volta, riguarda le sorti dei territori di confine in seguito alle guerre e alle divisioni geopolitiche, ma non direttamente le opere d’arte.
Infine, la Gioconda: la facciamo breve perché ne abbiamo parlato fin troppo. È vero che Napoleone impose all’Italia il Trattato di Tolentino nel 1797, chiedendo una ingente quantità di opere d’arte allo Stato Pontificio come risarcimento delle spese di guerra. È però anche vero che, grazie a Canova e all’aiuto degli inglesi, le sculture e dipinti furono restituiti quasi tutti e tra questi NON c’erano né la Gioconda né la Vergine delle Rocce, ambedue al Louvre. La Vergine delle rocce era stata dipinta da Leonardo per la chiesa di San Francesco Grande a Milano (oggi distrutta): completata nel 1486 i francescani la rifiutarono per ragioni iconografiche – si insisteva troppo sulla incarnazione di Cristo – ragion per cui Leonardo la vendette a caro prezzo al Re di Francia Luigi XII. C’è chi dice che in realtà la questione del ritiro e della vendita al re dipenda da ragioni diverse, ma ci fu comunque una causa tra Leonardo e i committenti milanesi e questi sono dettagli da specialisti. Sta di fatto che il dipinto si trova legittimamente al Louvre, che era il palazzo reale francese e che il re fu l’acquirente direttamente da Leonardo. Ne esiste anche una seconda versione, venduta legittimamente agli inglesi nel XVIII secolo quando fu soppressa e distrutta la chiesa di San Francesco: si trova alla National Gallery e nessuno ne discute il possesso britannico.
Quanto alla Gioconda, Leonardo da Vinci – in difficoltà tanto con il papa a Roma, quanto con Firenze – si rifugiò in Francia a partire dalla fine del 1516 o al più tardi nel 1517: il re Francesco I gli diede ospitalità nel castello di Amboise e gli assegnò una pensione come “primo pittore, architetto e meccanico del re”. Lì Leonardo si spense il 2 maggio del 1519. Nel trasferimento in Francia si era portato dietro il dipinto di Monna Lisa, mai consegnato ai committenti: se lo stesso Leonardo lo abbia venduto o donato al re, oppure se la vendita sia avvenuta attraverso Salaì – erede di tutto lo studio di Leonardo nel castello – noi non lo sappiamo. Sta di fatto che anche la Gioconda sta in Francia legittimamente e non fa parte del bottino di Napoleone, come impropriamente viene definito il Trattato di Tolentino.
Trafugate e mai restituite sono piuttosto diverse altre opere, come la spledida Madonna della Vittoria di Andrea Mantegna, che faremmo bene a chiedere indietro al Louvre, ma evidentemente Mantegna non fa notizia come Leonardo.
La nostra maggior perdita in quella occasione fu un patrimonio in manoscritti, piccoli oggetti e medaglie delle biblioteche e collezioni antiquarie italiane: tra questi il Codice Atlantico della Biblioteca Ambrosiana, poi ritornato a Milano grazie a Canova, ma tanti altri mai più rientrati. Il Lombardo Veneto era sotto il controllo dell’Impero Austro Ungarico, che non si prese mai la briga di fare uno spoglio esatto del mancante che ancora oggi viaggia per il mondo.
Insomma, l’arte da sempre fa le spese della storia e della geopolitica e sicuramente tenere un riflettore acceso su questi problemi è fondamentale, ma prima di urlare accanitamente allo stadio ‘aridatece la Gioconda‘ faremmo bene a informarci e a chiedere ciò che legittimamente ci spetta: faremmo una figura molto più bella e potremmo perfino ottenere qualche risultato. (p.f.)