A seguito dell’oscuramento da parte del web della locandina di Valentina Maragnani “Il corpo delle donne” per “eccesso di porzioni di pelle che mostrano […] organi riproduttivi esterni”  pubblichiamo la versione integrale del testo del pieghevole della mostra che tratta proprio di questo. E benvenuti nel mondo dell’ipocrisia.

 

[…] Una donna forte

è un mucchio di cicatrici che fanno male

quando piove e di ferite che sanguinano

quando le urti e di memorie che si svegliano

di notte e marciano avanti e indietro […]

 Marge Piercy (Detroit 1936), Per donne forti, trad. Loredana Magazzeni

Quando Valentina Maragnani mi ha chiesto di esporre da me, ho voluto sfidarla.

Oltre ad essere una validissima artista che si sta facendo strada molto bene è una donna forte e intelligente, che la vita ha segnato nel corpo ma non nello spirito.

Indomita nonostante le sue personali cicatrici e fiera della sua “diversità”, combatte quotidianamente per affermarsi attraverso il suo pensiero e la sua visione in un mondo che privilegia l’apparire all’essere anche nel mestiere dell’arte.

È sufficiente fare un giro sui social: laddove gli artisti maschi postano quasi esclusivamente il loro lavoro, le donne – soprattutto se giovani e graziose – posano fin troppo spesso davanti le loro opere, che passano così in secondo piano.

Certamente sfruttano a proprio vantaggio i meccanismi della società dell’immagine, alimentando però il luogo comune in cui ancora ci si meraviglia che una donna sia bella e brava.

Davvero sarebbe da evitare, dato che il corpo delle donne è da sempre un oggetto dell’arte, ob-iectum – letteralmente posto di fronte – realtà esterna sottoposta alla valutazione ed elaborazione cognitiva del pensiero. Afrodite, Eva, le ninfe, i nudi d’accademia sono solo alcuni dei temi che gli artisti pratica da millenni come “forma bella” dell’arte adatta a tutti i palati.

A Manet si rimproveravano la bruttezza (!) e la posa indecorosa del corpo impudicamente esposto di Olympia, messo a confronto con quello della voluttuosa e artificiosa Nascita di Venere di Cabanel (1863): se ne dovrebbe quindi dedurre che un corpo “diversamente bello” – vale a dire non rispondente ai canoni estetici e morali del momento – sia un soggetto brutto?

Nonostante tutta la nostra esausta civiltà, siamo ancora all’epoca di Coubert, quando l’Origine del mondo – nudo vero e sincero come difficilmente se ne possono trovare – suscitava scalpore (1866): è ridicolo pensare che perfino sul web gli algoritmi concedano la possibilità di pubblicare centinaia di fotografie di natiche, ma guai a vedere un capezzolo femminile sia pure dipinto (quello maschile è concesso!).

L’argomento della bruttezza immorale ci porterebbe lontano, fino all’epoca omerica (Tersite – storto e gobbo – è l’antieroe per eccellenza, traditore, vile e smargiasso), quindi tornando a noi poniamo un paradosso: se l’arte bella rappresenta soggetti belli, un artista non bello nel senso dei canoni correnti è in grado di concepire della buona arte?[1] E perché l’arte dovrebbe essere tale solo in presenza di soggetti gradevoli nella forma e nel contenuto?

E quale sarebbe l’etica della nostra società che ancora pretende “donne belle” in posa per “arte bella”, oggettivandole fino al limite di renderle cose, al pari di una fruttiera o di un pascolo di vacche?

Data la premessa, davvero ci meraviglia che esistano uomini che pensano di possedere le donne come oggetti – schiavizzandone la mente e il corpo – da usare e distruggere a piacimento?

Questi pensieri viaggiavano nella mia mente ben prima dell’incontro con Valentina Maragnani e la sua arte, ma quell’incontro ha generato il corto circuito necessario a trasformare il pensiero in azione.

Valentina ha raccolto la sfida, mettendosi alla prova con una serie di dipinti pensati ad hoc per la mostra, raccontando altre cicatrici di altre donne con il suo stile pop e apparentemente giocoso: cicatrici dell’anima visualizzate in simboli, tatuaggi, monili, che raccontano il rapporto delle donne con sé stesse, con l’amore, con il mondo, con l’arte.

Mai scelta fu più indovinata: la Pop-Art nasce come riflessione sulla società della comunicazione e dei consumi, tesa a nascondere e dimenticare la bruttezza della malattia e della morte sempre incombenti sotto una patina di smalto scintillante.

Ma le cicatrici, come sa bene chi ha vissuto una malattia del corpo o dell’anima, possono essere il segno di un nuovo inizio, la traccia di un passato che sì, ci ha feriti, ma è diventato parte attiva e positiva del futuro.

Per Valentina Maragnani dipingere e ascoltare musica – dipingere ascoltando musica! – è stato un antidoto alla solitudine: non quella fisica, perché mai è stata abbandonata, ma quella psicologica di un bambino che si sente diverso. Musica e pennelli e il corpo non esiste più, se non come strumento necessario alla creazione artistica.

I dipinti di Valentina Maragnani sono dei rebus con una colonna sonora: l’abbecedario visivo che fa da sfondo ai corpi viola, verdi e gialli, dalle linee grafiche sinuose e sexy, dai volti di principesse esotiche dai grandi occhi, è la chiave di lettura nascosta sul fondo dei dipinti. È una sarabanda psichedelica di suoni e colori che va decifrata come un mosaico medievale, ricomponendo i frammenti di una consapevolezza lucida che nasce dal fondo dell’anima.

Chiedere a una donna un lavoro sul corpo delle donne ha la valenza di riflessione su un tema annoso e mai risolto: esiste un’arte “al femminile”? Questa definizione significa forse che, di nuovo, ci meraviglia che le donne abbiano le stesse competenze degli uomini? Ma come non riconoscere che su alcuni argomenti le donne hanno una sensibilità diversa – non migliore, non peggiore, semplicemente diversa – rispetto le cose del mondo?

Solo una donna profondamente intelligente e con un’esperienza diversa del corpo e della bellezza avrebbe potuto affrontare un tema così impegnativo con tanta leggerezza ed eleganza formali. Ad esaltarne il senso, la presenza dei capi unici d’alta moda di Monica Cosimi. Preziosi nelle forme e nei materiali, bellissimi e vuoti finché non li vestiamo dei nostri desideri e dei nostri sogni.

Leggiadria, grazia, gradevolezza estetica sono le corazze che le donne indossano per essere socialmente accettabili, per coprire le cicatrici, per nascondere la realtà più intima sotto la maschera di un ruolo, accettando implicitamente le regole di categorie predefinite e comode per tutti: innocente Cenerentola o intrigante Armida?

Queste righe, nate come spiegazione al pubblico del lavoro di un’artista, sono diventate una lettera a voi, a me stessa, a Monica e soprattutto a Valentina, che mi ha dato l’occasione di concretizzare un pensiero sul senso del corpo delle donne, dell’idea di bellezza, del significato di “oggetto” nell’arte e nella vita. Di questo ringrazio l’artista, che ha accettato la mia sfida interpretando i miei pensieri attraverso un mondo rutilante di colori. (p.f.)

 

[1] Vengono in mente Toulouse Lautrec e le sue eleganti silhouettes liberty, segni del riscatto da una vita condannata ai margini: per la sua deformità fu sensibile al mondo delle donne equivoche, sorelle di sorte trasmutate calligraficamente in libellule.